Marketing

Emergenza Influencer marketing

Un nuovo settore, l’Influencer Marketing, sta cambiando il modo in cui si fa brand communication. Ce ne parla Matteo Pogliani, uno dei massimi esperti in materia.

Il digital retail è sempre più diffuso, anche se ormai la maggior parte dei retailer si sta rendendo conto dei vantaggi di imparare a utilizzare al meglio marketplace maturi come Amazon, eBay o Facebook. Mi chiedo, come è possibile competere avendo come unico spazio uno scaffale di queste enormi libraries di prodotto?

Credo che il problema di fondo di molti brand è il concentrarsi troppo sulle peculiarità di questi colossi, sfidandoli sul loro stesso terreno e quindi con risultati difficilmente positivi. Al contrario dovrebbero comprendere appieno quali siano i loro caratteri distintivi, quegli elementi di posizionamento e branding che li rendono appetibili per gli utenti e, una volta compresi, focalizzarsi sul valorizzarli.

Ad esempio, non batteremo mai Amazon su velocità, comodità, semplicità, ma certo possiamo provarci su esclusività ed emozione legata all’acquisto. Elementi che si traducono in esperienza ed heritage e che si costruiscono in anni di lavoro e relazioni. Un terreno questo in cui i brand sono certamente più a proprio agio che i marketplace.

Se i brand ragionano da semplice “negozio virtuale”, soffermandosi appunto solo su libreries di prodotto, il gioco finisce prima di iniziare.

 

Ho letto che Amazon si sta organizzando o, magari, già sta accadendo, per permettere ai vendors di utilizzare influencers a supporto delle proprie strategie e azioni di vendita. Ci spieghi meglio questo passaggio?

Come tutte le piattaforme, anche Amazon è attenta ad ascoltare i trend del momento e tramutarli in nuove funzionalità. Era solo questione di tempo prima che arrivassero anche all’influencer marketing.

Tutti noi tendiamo ad ascoltare e farci influenzare da persone che riteniamo competenti, capaci, credibili. È un dato di fatto. Se in passato queste persone erano per lo più nostri conoscenti, oggi grazie al web e ai social è possibile accedere ad una serie infinita di contenuti e quindi di persone che, grazie alla loro attività, si sono posizionati come riferimenti in particolari settori/network.

I loro pareri vanno a segnare in modo profondo il substrato informativo su un prodotto/servizio e la sua reputation, condizionando conseguentemente gli acquisti.

Perché l’influencer marketing non è una semplice vetrina per dare maggiore visibilità a un brand, ma quando fatto bene ha il merito di agire sullo ZMOT e quindi sull’acquisto.

Chi di noi non legge una recensione in Internet o cerca informazioni online prima di comprare un prodotto di cui è interessato? Bene, immaginate che le notizie che trovate siano di persone estremamente autorevoli e competenti nel settore. Sarà difficile non seguirle.

Per Amazon si tratta di un’evoluzione, visto che già le recensioni degli acquirenti (fondamentali per la vendita) possono essere considerate, in piccolo, un esempio della portata dell’influenza generata da altri.

Matteo Pogliani

Quando parliamo di influencers la maggior parte delle persone ha in mente il self branding di Chiara Ferragni, che invece di fatto è qualcosa di molto atipico. Così come per il mondo youtuber, che si muove in altro modo rispetto al vero e proprio sviluppo di un marketplace in grado di unire le nicchie ai prodotti. Tu hai sempre detto che i microinfluencers sono molto interessanti. Perché?

Perché rappresentano un’altra faccia dell’influencer marketing, quella più vicina e affine agli utenti stessi. Risultano affidabili proprio perché simili alle persone a cui si rivolgono, incarnandone pregi e difetti.

Questa loro spontaneità e vicinanza li rende molto più credibili, rendendo i loro pareri molto rilevanti nella fase di valutazione di un prossimo acquisto.

Plus esaltati anche dalla bolla nata attorno agli influencer più rilevanti, troppo spesso coinvolti in vere e proprie markette. La gente si fida sempre meno di loro, preferendo figure magari meno visibili e competenti, ma certamente più vere.

Ovvio che i loro bassi numeri a livello di audience ci costringono a creare campagne in cui ne vengono coinvolti diversi e, nella maggior parte dei casi, il brand dovrà essere bravo a sostenerne i contenuti tramite i canali proprietari e supporto dell’online advertising.

Come funzionava punto di vista tecnico la transazione cliente-prodotto/servizio-influencer-utente finale? Perché si dovrebbe investire in questo settore?

In un momento in cui è sempre più difficile vincere la sfida dell’attenzione e l’advertising classico fatica sempre di più, i creator con la loro forza comunicativa sono uno dei pochi strumenti con cui i brand possono creare messaggi capaci di avere un reale impatto. Il loro posizionamento e l’autorevolezza guadagnata, unita a contenuti di grande appeal per il pubblico li rendono capaci di togliere gran parte delle sovrastrutture commerciali della comunicazione di prodotto, andando invece a puntare su elementi quali utilità, emozione, affinità.

Che siano in collaborazioni o attraverso branded content, i brand non possono più rinunciare al coinvolgimento degli influencer. Basta però non lasciarsi trascinare dal trend, ma creare progetti strategici, realmente in grado di rispondere alle esigenze e agli obiettivi aziendali.

Non cerchiamo una vetrina, ma dei driver che creino conversazioni prima e relazioni poi.

 

Esistono strumenti tecnici, piattaforme e digital tools che ti sentiresti di suggerire a chi intenda approcciare questa strategie del mercato digitale?

Esistono tool capaci di analizzare i profili degli influencer e permetterci di sceglierli in modo data driven, valutandone cioè caratteristiche e performance. Non è infatti tanto importante quanti follower abbia, ad esempio, ma capirne la strutturazione. Magari così potremmo accorgerci che solo una parte è del paese in cui ci interessa fare la campagna o nella fascia di età per noi interessante.

Klear, Launchmetrics, Blogmeter sono alcuni degli strumenti che ci permettono di fare questo al meglio.

 

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Matteo è cresciuto tra Toscana e Lombardia, ama la moda (YSL e Mc Queen su tutti) e ha una collezione in essere di giacche. Va matto per l’arte contemporanea (prima o poi, insiste, comprerà un Kapoor) e la scrittura americana, in particolare il fu David Foster Wallace. Quando non lavora scrive o legge e prima o poi, insiste nuovamente, si trasferirà a Monterrey e darà vita ad un romanzo.

Si occupa da anni di social media e comunicazione, in particolare in ambito web. Lavora in Open-Box, un’agenzia, dove con passione, impegno e tanta pazienza)cerca di sostenere i percorsi di enti, privati e  aziende nel variegato mondo del digitale. Progetti ma soprattutto strategie per instaurare relazioni tra persone e brand e favorire dialogo. Perché solo così il web diventa risorsa e non semplice moda.

 

 

 

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