Oggi, diceva uno straordinario Ken Robinson in un bellissimo intervento in una TED Conference del 2006, diventato poi un video da 50 mln di visualizzazioni, il modo in cui concepiamo la scuola sta uccidendo la creatività. È un lascito che ci viene dalla storia, da come la rivoluzione industriale ci ha imposto la classificazione dei saperi.
Non solo perché, di fatto, c’è stato un progressivo affossamento delle materie umanistiche e artistiche, materie che stanno ricevendo attenzione e riabilitazione solo in questi ultimi tempi, ma per la natura stessa del cambiamento che stiamo vivendo.
La maggior parte di noi studia ed esprime teorie, dice in sostanza Robinson, su professioni future che oggi non conosce, non siamo infatti in grado di anticipare quel che saranno i mestieri di domani, ma pretendiamo di tracciare dei confini su cosa sia meglio apprendere e perché.
Il motivo è da ricercare nella grande velocità di trasformazione del mondo attorno a noi e in un naturale cortocircuito tra l’urgenza di assecondare il progresso e la resistenza a restare ancorati a un proprio status quo.
Il cambiamento, quindi, è questa la vera parola chiave del momento, assieme all’urgenza di studiare nuovi e funzionali modelli di apprendimento a partire proprio dai contenuti che, sempre più, integrano attitudini creative e culturali con conoscenze scientifiche.
Nel Regno Unito, ci avverte Pierangelo Soldavini in uno degli ultimi numeri usciti di Nòva Il Sole 24 Ore, si vanno affermando le cognitive science, che mettono assieme neuroscienze, filosofia, computer science, psicologia.
Per fronteggiare la nuova rivoluzione tecnologica e comportamentale (visto che la pervasività dei media digitali cambia radicalmente il nostro modo di stare al mondo), c’è sempre più bisogno di approcci di life long learning. L’Osservatorio delle #Competenze Digitali messo a punto da Aica, Assintel, Anitec e Assinform parla chiaro. Si va sempre più verso stili tecnici che necessitano una conoscenza delle tecnologie almeno di base.
L’idea che i prossimi mercati saranno, di fatto, dei network markets sviluppati su piattaforme, ecosistemi aperti in chiave collaborativa come insegna, ad esempio, il cooperative platform, non è così lontana da noi.
Più la realtà si fa complessa, maggiori sono le variabili in campo, e più la prospettiva di studio e analisi cambia radicalmente. L’affermarsi di discipline come il Growth Hacking, la continua contaminazione tra data science e content design, rende urgente un ripensamento della #formazione tecnica e specialistica oltre a un recupero e valorizzazione delle conoscenze sociologiche e culturali.
Non è un caso che nell’elenco dei prossimi mestieri, tra professioni più schiettamente tecnologiche come il Designer di Realtà Virtuale, il Creativo di Dati IOT, l’Innovatore di Energia Sostenibile, il Designer del Corpo Umano, troviamo l’Esperto di Cultura Digitale, il Creatore di Contenuti Personali, a cui andrebbero aggiunti gli Experience Designer e i Creatori di Grandi Eventi.
Discipline anticipate da studiosi come Philip Kotler che aveva qualche anno fa lanciato il manifesto del marketing umanistico e che oggi ritornano sotto i riflettori. Conoscere il mondo, avere una forte base culturale diventano la chiave d’accesso per il disegno e la costruzione di inedite strategie di marketing e di produzione.