a cura di Progettomenodue
Partiamo subito con qualche domanda secca: quale scenario si prospetta per il design?
In un contesto di economia globalizzata, la scuola e le imprese italiane cosa stanno facendo per riuscire a stare al passo?
Ipotizzare quale futuro sarà riservato al designer non è semplice.
La sua figura e le sue mansioni sono talmente cambiate nel corso degli anni che lo ritroviamo nei settori più svariati.
Se una volta ci si riferiva al progettista dell’abitare e degli oggetti di uso comune, oggi coinvolge un ventaglio di professioni che vanno dal grafico, allo sviluppatore di interfacce per siti web, all’art director.
Oltre all’ideazione e alla progettazione, al designer dei tempi moderni vengono richieste tutta una serie di competenze che spaziano dal marketing, all’economia gestionale, alle strategie di comunicazione.
Diventa quindi fondamentale per gli istituti formativi e per le imprese riuscire a forgiare professionisti qualificati, in grado di rispondere in maniera polivalente alle esigenze di una società dai ritmi sempre più veloci.
Se negli anni Sessanta veniva richiesta una produzione in serie di un oggetto funzionale ed esteticamente attraente, oggi la domanda verte anche su temi quali innovazione, sostenibilità, minor spreco.
Di energie, di tempo, di materiali.
Il sistema educativo dovrebbe quindi porre sempre più l’accento sul concetto originario della parola design.
La sua etimologia latina, de signum, cioè relativa al progetto, riguarda infatti la capacità di apprendere non tanto un mestiere, ma piuttosto un metodo.
Forse, per la posizione privilegiata che l’Italia riveste da decenni all’interno del sistema, questo concetto è andato un po’ ad affievolirsi.
Di corsi di formazione per diventare dei bravi esecutivi ce n’è a bizzeffe, molti dei quali purtroppo dietro pagamento di rette costose e borse di studio pressoché inesistenti.
Oggi come oggi, il tenersi aggiornati e acquisire una metodologia progettuale (fatta di capacità tecniche, visione, esperienza e logica) è passata dal sistema formativo al singolo.
Non neghiamo che siano tante le possibilità messe a disposizione e che non manchino i centri di eccellenza, ma servirebbe una maggiore divulgazione e cultura dell’aggiornamento. La molla non dovrebbe scattare per la curiosità di una persona, ma rientrare in un percorso formativo reso pubblico e accessibile.
Spesso le aziende faticano a stare al passo: a fronte di scadenze impellenti e richieste di multitasking selvaggio il tempo dedicato ai workshop, alla visita di una fiera specializzata o, semplicemente, alla sottoscrizione di abbonamento ad una rivista di settore si riduce ai minimi termini.
Eppure, è un patrimonio enorme quello che ci troviamo tra le mani.
E che rischia di essere oscurato da nuovi player internazionali. Nazioni come Svezia, Danimarca o Israele che, grazie ad un welfare più attento e fondi consistenti per la ricerca, si stanno imponendo sul mercato.
La cosiddetta design economy in Italia corrisponde allo 0,3% del Pil nazionale. Un fatturato di 4,4 miliardi di euro, 29 mila imprese e quasi 50 mila addetti. Gli 89 istituti del settore, sparsi sul territorio, attirano ogni anno sempre più stranieri. Il Politecnico di Milano, all’apertura del nuovo anno accademico, registra un raddoppio degli studenti stranieri dal 2010 ad oggi.
Perché?
La risposta è molto semplice. Perché noi italiani siamo, di fatto, abituati al bello.
Eredi di un patrimonio rinascimentale che non ha eguali al mondo, nipoti di menti geniali come Giò Ponti, Albini, Munari e tantissimi altri, sappiamo da sempre coniugare innovazione e artigianalità, internazionalità e territorio.
Un savoir-faire che tutto il mondo ci invidia e che andrebbe custodito e sviluppato. Costantemente e gelosamente.

Come Zanotta, per esempio. Azienda che non ha bisogno di presentazioni e che ha fatto della tutela del distretto della Brianza comasca e milanese un punto cardine della sua politica aziendale. E parliamo di seimila realtà che contribuiscono al 18% della produzione nazionale di mobili.
O Vegea, start-up trentina specializzata nella produzione di biomateriali ricavati dall’uva.
Vivere di rendita non sarà eterno. Se Milano resta ancora oggi la capitale indiscussa del design è pur vero che servirebbero più investimenti, più organi di controllo, più centri di diffusione del design thinking italico. Che poi si chiamerà project management, strategic development o business design, poco importa. Solo con percorsi formativi adeguati alla realtà dei tempi e una seria filiera territorio-formazione- produzione si potrà continuare a trasmettere questo know-how.
Creatività esclusa, ovviamente. Ma quella non si insegna.
