a cura di Davide Pellegrini
Mi ha colpito molto un’intervista a Massimiliano Giorni, Direttore artistico del New Museum di New York, in cui diceva che i musei del domani andrebbero interpretati come “software” aperti.
Nel senso di immaginare un museo prima come spazio virtuale e ideale e poi come luogo fisico. Se pensiamo a una città, all’identità di ogni luogo, sia esso concepito per una proposta commerciale o per un’attività culturale, dobbiamo fare lo sforzo di individuare le dinamiche con il resto del territorio.
Quale funzione esercita un museo e quale un centro commerciale? Come possono integrarsi con il resto della città diventando parte della dialettica tra funzioni, attività, necessità dei cittadini e servizi?
Non sono domande retoriche, semmai fanno riferimento all’idea di interpretare i processi di riqualificazione urbana al di fuori dei limiti del rapporto produzione consumo che, di fatto, hanno contribuito a popolare le nostre periferie di cattedrali nel deserto, centri commerciali spesso con poca personalità e poca offerta di contenuto. Le nuove centralità urbane, le dislocazioni periferiche non potranno più essere semplicemente dei centri espositivi. Bisognerà puntare ad altro.
Immaginare, ad esempio, luoghi aperti come zone franche d’incontro tra professionisti e persone, tra brand e utenti, tra imprenditori e start up. Luoghi in cui le aziende sposano manifesti di valore e rendono le offerte commerciali funzionali alle aspettative dei nuovi clienti. Perché, inutile ricordarlo, l’azienda che saprà mettere sullo stesso piano se stessa e la vita dell’uomo comune (in epoca di post millenials è davvero il valore chiave), avrà vinto. Sarà quello il brand del futuro in cui i prodotti sono solo una parte, una comodità, di una proposta che invece investe l’esistenza del singolo, il suo lavoro, la sua crescita, i interessi e bisogni. Un’azienda, che è anche un problem solver vincente.
L’auspicio è l’incontro tra il settore privato e i centri di ricerca che stanno lavorando sull’innovazione, in ogni forma che il futuro sta prendendo rispetto alla vita produttiva, sociale, culturale e, di conseguenza, rispetto ai modelli di esperienza e consumo della comunità.
Prendiamo il caso dell’Ars Electronica Center. Si legge sul sito:
Sin dalla sua fondazione nel 1996, Ars Electronica Futurelab è stata un laboratorio di ricerca e sviluppo incentrato su progetti che si ispirano a vicenda nell’innovazione artistica e tecnologica. Dai progetti espositivi alle installazioni fino alla cooperazione con le università e il settore privato, il team, che è unito nel suo metodo di lavoro transdisciplinare, persegue un ampio spettro di progetti.
Prendiamo il progetto Il Futuro del Lavoro. Nella primavera del 2017, l’AEC viene incaricato dal Centro di Addestramento Audi di Monaco di preparare un evento sul tema della digitalizzazione nell’ambito del Training centrale “incontrare il futuro”. La sfida era organizzare un percorso di formazione per dare ai partecipanti una visione del futuro della società e l’impatto che ciò comporta rispetto alla propria vita personale e professionale. Da sottolineare l’obiettivo:
qui non si tratta di studiare la possibile semplificazione di determinati flussi di produzione, piuttosto di creare un modello di raccolta dati per le fasi iniziali del product design, dal concept fino alla comparsa dei prodotti nelle nostre vite.
Un modello di formazione e facilitazione, quindi, che partendo dall’idea di futuro cerca di indagare le necessità e le funzioni dei consumatori nell’ottica di offrire soluzioni e strumenti quanto mai innovativi e utili all’azienda così come agli utenti.