C’è sempre un rovescio della medaglia…in ogni cosa. Inutile quindi tornare, per fare un esempio, sugli innumerevoli dibattiti a favore o contro l’uso dei social – soprattutto da parte dei giovani – o sulle disquisizioni, un po’ a vanvera, riguardo l’opportunità di diffondere qualsivoglia tipo di notizia di cui i media vengano in possesso. Entrambi i temi, in questo periodo di emergenza, sono invece proprio tra i più gettonati e vedono protagoniste affermazioni diametralmente opposte a quelle che venivano espresse fino a qualche mese fa, dalle medesime persone.
I social?
Demonizzati prima, perché assorbivano tutta l’attenzione e il tempo dei ragazzi. Benedetti ora, perché almeno i più piccoli sanno come impiegare il tempo.
La gestione delle notizie? Tutti (giustamente) contro ogni forma di censura e a favore della liberalizzazione assoluta, prima. Oggi, invece, inizia a serpeggiare il bisogno di non sapere (più facile!), di non sentire (più comodo!), di centellinare le notizie o di ricevere le informazioni solo quando sono certe…perché siamo stati sommersi da fake news, perché non siamo più in grado di discernere tra vero e falso, perché qualcosa ci è scappato di mano.
Non a caso si parla di infodemia, un pericolo ancora più minaccioso dello stesso Virus. E veniamo quindi al punto. Il problema è proprio l’effetto deleterio che hanno, su molti di noi, le notizie negative che circolano, che sono in grado di annientare ogni progettualità, abbattere il morale ed azzerare l’autostima in chi si trova impreparato a gestire un’avversità. L’ostacolo però non sta al di fuori di noi, ma in noi stessi. Una delle fasi cruciali nel processo di crescita personale, basato sullo sviluppo della nostra Intelligenza Emotiva, è rappresentato dall’interiorizzazione di questo concetto: “non posso agire per cambiare ciò che ho attorno, ma per modificare l’effetto che ciò che ho attorno ha su di me”. Vediamo di applicare il medesimo concetto all’ambito lavorativo e alle organizzazioni. Davanti a un obiettivo momento di difficoltà, dovuto alla crisi economica conseguente al lockdown per la pandemia che ci ha colpito, è assolutamente inutile sia tentare di negare l’evidenza (rimozione), sia farsi prendere dal panico e costruirsi degli alibi per non agire (freezing), sprofondando così nel baratro (depressione). Il problema più grande non sono le notizie che leggiamo, negative, allarmistiche, spesso montate se non del tutto fasulle, ma l’effetto che tali notizie hanno su di noi. E di questo effetto, gli unici responsabili siamo noi stessi. Ciò che un’organizzazione ha il potere/dovere di fare, per il suo capitale umano, ancor prima che per il suo profitto, è potenziare la capacità di reazione di ogni singolo componente dell’organizzazione stessa, infondendo e diffondendo in modo virale – questa volta sì che usiamo il termine in un senso positivo! – un valore fondamentale, quello della resilienza. E come farlo? Con l’esempio.
Se ci pensate, il termine resilienza trae origine da un verbo latino resalio, che evoca un’immagine ben precisa: quella di risalire su di una barca rovesciata. La metafora è evidente: il saper “risalire” in un momento di difficoltà segna il confine tra chi ce la fa e chi no, tra chi si abbatte e chi reagisce. Saltare su una barca, col mare liscio forse non è impossibile, farlo in mezzo alla tempesta è certamente più complicato e avere un capitano che ti mostra come farlo o averne uno che si dispera e abbandona la nave, può fare la differenza. Su questa semplice riflessione prende forma l’idea di ciò che un’organizzazione può realizzare se, partendo da un concetto preso a prestito dalla chimica (“resilienza come assorbimento della deformazione elastica”), transitando attraverso i criteri della psicologia (“resilienza come capacità di reagire e superare difficoltà esistenziali”) riesce ad approdare a una nuova e personale visione strategica della propria capacità performante. Se con il termine performance intendiamo, infatti, il risultato di una sinergia tra creatività e contesto spazio-temporale, il risultato di un’adeguata capacità di reazione – per non rimanere imbrigliati nella paura di non farcela – sarà quello di creare all’interno della propria realtà lavorativa una smart-community capace di mettersi in gioco e di trasformare le criticità di un sistema in transizione in nuove opportunità e nuovi obiettivi perseguibili.
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