a cura di Redazione
Cosa vuol dire rebranding. Lo abbiamo chiesto a Carlotta Silvestrini, esperta di Rebranding e autrice del libro .
Lei si occupa di Brand Management e nello specifico di Rebranding. Come definire oggi il posizionamento di un marchio? Quali sono i punti davvero essenziali?
Il posizionamento di un marchio è un processo finalizzato a occupare un posto specifico nella mente del consumatore rispetto alla categoria merceologica di riferimento. Nei mercati odierni è un percorso più complesso e strutturato perché i consumatori sono sempre meno fedeli alle marche, gli scenari cambiano talvolta da un giorno all’altro e le aziende – soprattutto in Italia – hanno scarsa cultura in merito al brand management. Però chi lavora su questo ha un vantaggio competitivo enorme, riduce i costi pubblicitari e aumenta il CLV (Customer Lifetime Value), cioè l’indotto che porta il singolo cliente nel tempo. Mica male! I punti essenziali, andando oltre le regole da manuale, sono sicuramente in primis l’ascolto. Bisogna ascoltare (davvero) il mercato per capire a quale bisogno possiamo essere la migliore risposta. Al contempo l’azienda deve fare un lavoro introspettivo per comprendere quali sono i suoi reali valori, in cui il pubblico si dovrà rispecchiare e prendere una decisione in merito al tipo di posizionamento. La costanza e la coerenza in termini di comunicazione faranno il resto del lavoro.
Nella sua comunicazione si mette in risalto l’importanza di un rilancio del marchio e del brand, come dire che è possibile pianificare una strategia innovativa per dare alle imprese nuove chance. In cosa consiste questo processo di ricostruzione dell’identità di brand?
Noi abbiamo un approccio piuttosto contro tendenza, perché diamo priorità al buon senso in un mondo di agenzie che cercano solo di compiacere il cliente. Abbiamo imparato anche a dire di no, perché la seconda possibilità esiste solo nella misura in cui c’è effettivamente un bisogno da soddisfare. Prendiamo in carico solo progetti che cominciano – di comune accordo con l’azienda – con un assessment orizzontale e dal quale riusciamo a evincere tutto ciò che non sta funzionando. Nel tempo ho avuto la pazienza di aspettare i collaboratori giusti, quindi a oggi possediamo le capacità e le forze per risollevare anche realtà tecnicamente fallite, se il potenziale c’è. Dopo l’assessment rimettiamo in piedi tutto, dal modello di business alle risorse umane, per garantire stabilità. Poi, in seconda battuta, riportiamo le scelte strategiche anche nella comunicazione e nel giro di 4-6 mesi può avvenire il rilancio ufficiale.
Molti pensano che le strategie di branding riguardino solo alcuni aspetti della comunicazione. Invece mi sembra di capire che voi lavorate su un vero e proprio mindset. Ci può fare qualche esempio in merito?
Chi non sa la differenza tra marketing e comunicazione e si permette di vendere una di queste due cose, andrebbe fucilato in pubblica piazza perché danneggia in modo importante i clienti che con fiducia si affidano nella speranza di ottenere risultati tangibili. Il nostro lavoro è variegato e dipende dal cliente e dai suoi obiettivi. Per liberi professionisti e imprenditori abbiamo molte richieste da chi vuole reinventarsi, mettere a frutto le sue passioni o capacità, oppure ottenere più potere contrattuale verso l’azienda. Per le società è diverso. Se sono fallite o sulla via del fallimento, ma hanno potenzialità, lavoriamo in work-to-equity o a performance, le rilanciamo condividendo il rischio d’impresa con loro. Se hanno problemi solo strutturali, ci limitiamo a mettere a posto numeri e processi. Se hanno problemi di cattiva comunicazione o di prodotto, facciamo proprio il riposizionamento per riallineare il percepito sul mercato.
Lei ha scritto un libro ed è molto impegnata come docente e speaker di convegni. Ci parla di queste sue attività parallele?
Il libro che ho scritto in realtà è il canto del cigno della parte più operativa della mia carriera. Ne sto scrivendo un altro, ma non posso fare spoiler. Io credo molto nella divulgazione e da un lato vorrei fare solo questo, quindi per me – anche se sono attività economicamente in perdita – sono talmente fondamentali che non vi posso rinunciare. Voglio portare davvero conoscenza e consapevolezza sul tema, perché le aziende ne hanno bisogno o per sopravvivere o per scegliere le giuste agenzie. Gli studenti invece non ricevono preparazione adeguata dal mondo dell’Università e quindi li posso aiutare a entrare con cognizione di causa nel mondo del lavoro. Spero un domani di avere studenti più “continuativi” da far crescere insieme a noi, è uno dei miei sogni più preziosi.
Cosa consiglierebbe a chi volesse intraprendere il suo mestiere?
Di non proporsi prima di avere fatto tanta tanta operatività, perché ciò che viene scritto nei libri è quasi sempre obsoleto o comunque poco adatto alla realtà della PMI italiana. I modelli canonici (es. le forze di Porter) sono utili per interpretare, ma non per fare veri piani d’azione, poiché sono lenti da mettere in pratica e poco flessibili. Noi adottiamo l’approccio Agile anche in questo. Piccoli passi, check costanti, test immediati e, se la strada non è corretta, subito revisione in tempi stretti. Questa fluidità ci rende veloci e incredibilmente performanti, quindi non possiamo che suggerire lo stesso metodo a colleghi e futuri tali. Altro consiglio, leggere di tante materie diverse. Per fare Brand Management bisogna “masticare” tante materie. Bisogna comprendere tutto ciò che riguarda il modello di business, le dinamiche dei mercati, capire come una scelta di posizionamento impatterà sui processi o sulla struttura aziendale. Spero passi il messaggio che chi si improvvisa brand manager rischia di fare grossi danni, quindi umiltà, studio e buon senso prima di qualsiasi altra cosa.