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Smart Working

Nell’ultimo mese più di un milione di italiani hanno dovuto mettersi alla prova portando avanti le loro abituali attività lavorative esclusivamente dalla loro abitazione. L’emergenza Coronavirus ha reso lo “smart working” (o lavoro agile, per usare l’espressione italiana) uno strumento indispensabile per le aziende italiane: non più una scelta ma l’unico modo per proseguire nell’attività lavorativa al tempo del lockdown. Secondo i dati del Ministero del Lavoro, a metà marzo gli smart worker italiani sono cresciuti di più del 100% rispetto al periodo precedente.

Se fino a un mese fa la propria scrivania in ufficio era l’unico posto in cui portare avanti la propria attività professionale, ora assistiamo a un vero e proprio moltiplicarsi dei luoghi di lavoro, fisici e virtuali. È la rivoluzione dell’omnicanalità, che dopo aver stravolto il mondo del retail e tanti altri aspetti della nostra vita, ora cambia anche le regole del mondo del lavoro. Si lavora dal divano, ma con i colleghi da tutto il mondo connessi in “stanze” virtuali; si moltiplicano telefonate, e-mail, chat; si aprono nuovi canali social; la presenza fisica diventa virtuale e immersiva.

L’Italia e lo smart working

Prima dell’emergenza sanitaria l’Italia non era certamente considerabile la patria dello smart working: nel 2018 secondo il rapporto Eurostat, nel nostro Paese gli impiegati subordinati in regime di lavoro agile rappresentavano solamente il 2% del totale, contro una media europea del 11,6%. Una ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano del 2019 ha stimato in 570mila gli smart worker italiani, registrando però un trend in netta crescita, soprattutto nel pubblico, dove in un anno sono raddoppiati i progetti strutturati di lavoro agile, che hanno coinvolto il 7% delle PA, contro il misero 1% del 2018.

Le ragioni dello scarso entusiasmo italiano vanno cercate certamente nella nostra cultura del lavoro: è ancora ben radicato il falso mito secondo il quale lo smart working sarebbe una piaga per la produttività. Tutti i dati, però, raccontano un’altra storia: secondo una ricerca BVA-DOXA condotta su un campione di aziende italiane durante questo mese di lavoro agile, solo il 10% degli intervistati ha rilevato un calo di efficienza dovuta al nuovo paradigma. Va ancora meglio secondo i dati di Astra Ricerche per ManagerItalia: il 95% degli iscritti all’associazione sostiene che il lavoro da casa non ha in alcun modo influito sul rendimento dei lavoratori. Diversi studi dimostrano addirittura come lo smart working potrebbe portare ad un aumento della produttività complessiva, anche a fronte di un’efficienza oraria più bassa, riducendo le perdite di tempo dovute al tragitto casa/lavoro.

La qualità della vita

Se l’impatto del lavoro agile sulla produttività può addirittura essere positivo, qual è il suo effetto sulla qualità della vita dei lavoratori? Lavorare da casa consente sicuramente una miglior conciliazione tra vita privata e lavoro, ma i benefici non finiscono qui. Secondo Arianna Visentini, una delle massime esperte italiane di smart working, il nuovo paradigma consente “risparmi di tempo (90 minuti al giorno risparmiati in media) e risparmi di denaro (tra i 25-30 euro al giorno in pre-scuola, post scuola, baby sitter, pasti, viaggio, lavanderia, gastronomia, manutenzione auto), ma anche un miglioramento della qualità della vita, della salute, del benessere personale.”

I benefici esistono anche per le aziende, che possono risparmiare sui costi di gestione degli spazi fisici e gran parte delle spese dovute a pasti, trasferte e rimborsi. Non ultimo c’è l’impatto positivo sull’ambiente: 3,5 giorni di smart working al mese equivalgono – come CO2 non emessa – a 18 alberi all’anno, a persona!

E adesso che succede?

Lo smart working potrà diventare la nuova “normalità” di molti lavoratori italiani? Secondo una stima di Tito Boeri (ex presidente dell’INPS) e Alessandro Caiumi, già da ora circa il 50% degli occupati in Italia potrebbe lavorare completamente da casa, o con contatti de visu sporadici. Rimangono però alcuni ostacoli non indifferenti: il primo è rappresentato dal digital divide e dalla condizione delle infrastrutture di rete in Italia. Secondo l’ultimo rapporto Istat “Cittadini, imprese e Ict”, nel 2019 un italiano su tre non ha mai usato Internet, il 25% delle famiglie italiane non ha una connessione, e oltre il 41,6% di chi va online ha competenze digitali basse. Il rapporto DESI (l’indice europeo di digitalizzazione dell’economia e della società) dello stesso anno posiziona l’Italia al 24° posto su 28 paesi europei per velocità media della connessione.

Un altro ostacolo non indifferente è il necessario cambio di mindset: perché lo smart working diventi uno standard efficiente e sostenibile. Serve una nuova organizzazione del lavoro, che si basi sui risultati prima che sul tempo speso, e che riconosca il valore di ogni dipendente. Il cambiamento di paradigma deve esserci a tutti i livelli, dai vertici ai semplici impiegati: flessibilità, responsabilità e trasparenza devono essere riconosciute come qualità preziose e indispensabili, più della mera capacità di eseguire un compito ripetitivo. Ogni professionista deve imparare a lavorare con proattività, dandosi obiettivi personali e riconoscendo il suo valore per l’azienda.

Cosa impareranno le aziende italiane dall’emergenza Coronavirus? Il 2020 rappresenterà davvero un anno di svolta nella transizione verso nuovi modelli di sviluppo e di vita? È difficile dirlo ora, quello che è certo è che migliaia di manager, impiegati, professionisti italiani, in questi giorni, hanno provato sulla loro pelle l’efficienza di un paradigma davvero smart, che sappia sfruttare con efficacia gli digitali per migliorare la produttività e la qualità della vita. Tornare indietro non sarà così semplice.

 

Foto di Vlada Karpovich da Pexels

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Classe 1994, laurea in Comunicazione, Innovazione e Multimedialità all'Università di Pavia. Si occupa di marketing, comunicazione politica, digitale e non solo. È analista di TV Talk su Rai 3.

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