a cura di Progettomenodue
Due anni fa, alla Venaria Reale di Torino, visitammo una mostra dal titolo Fatto in Italia, a cura di Alessandra Guerini. La particolarità dell’esposizione stava nel voler rintracciare la storia dei manufatti di pregio italiani attraverso i secoli. Oggetti in cui la qualità artistica e l’eccellenza tecnica trovavano la loro massima espressione.
A dimostrazione del fatto che il concetto del made in Italy non è solo quello degli anni del boom economico, ma è vecchio di almeno cinque secoli.
Per la particolare struttura produttiva italiana, che si è sempre basata su una forte radicazione territoriale, la concentrazione in distretti che favorisce la diffusione delle competenze e il lavoro a braccetto tra artigiani e industriali, in quest’ottica, non stupisce che l’Italia sia sempre stata un centro di eccellenza.
Come non stupisce che il problema dell’imitazione riguardasse già i nostri antenati: dai casi di spionaggio per riprodurre all’estero maestranze nostrane, alla vendita di stoffe operate chiamate à la façon de Gênes con lo scopo di aumentarne il prestigio. Vero e proprio Italian sounding ante litteram.
Il “made in Italy”, come lo conosciamo oggi, è un marchio apprezzato in tutto il mondo, superato solo da Coca Cola e Visa.
Un patrimonio del genere merita perciò di essere valorizzato e protetto. Soprattutto perché, pur rappresentando un’identità nazionale, di fatto, è composto da migliaia di piccole e medie imprese che operano nei settori più svariati. Dalla moda all’agroalimentare, dalla nautica all’arredamento. Una costellazione di realtà locali che ogni giorno devono fare i conti con un mercato sempre più spietato e globalizzato.
Cosa può fare allora l’imprenditore italiano per tutelare i suoi prodotti e difendere la proprietà intellettuale, senza esser costretto a depositare brevetti su brevetti?
Investire nell’educazione all’autenticità è forse il miglior modo in grado di portare ottimi risultati.
Impostare una strategia di marketing che evidenzi il know-how e la qualità è uno strumento sempre più preso in considerazione dalle aziende. E lo si vede dai tanti master proposti focalizzati sul management del made in Italy, così come siti internet che mostrano il dietro le quinte di un prodotto: video di certe fasi di lavorazione, prototipi, attenzione all’heritage, immagini super curate, interviste degli addetti ai lavori. Perché l’obiettivo è far trasparire il lavoro e la cura che vengono messi in ogni singola fase del progetto. Ed in questo la tecnologia ci viene in aiuto.
Nel settore wine&food, che è tra i più colpiti dalla contraffazione, si stanno diffondendo sempre più app che mettono a punto sistemi per la tracciabilità. Con la scansione di un bar code, il consumatore finale può immediatamente sapere se un determinato prodotto è vero o un clone. Evitando così di comprare agghiaccianti mozzarella cheese a forma di sottiletta o un “Prisecco” tedesco e, soprattutto, evitando di contribuire al mostruoso giro d’affari legato all’italian sounding, pari -al 2016- a 54 milioni di euro, ossia la metà dell’intero fatturato dell’industria alimentare italiana.
Anche nella moda, le aziende si sono adoperate per combattere la piaga del fake.
Certilogo, ad esempio, ha ideato un sistema che assegna a tutti i prodotti dei suoi clienti un codice di 12 caratteri che può essere poi verificato sul sito del brand.
Dare trasparenza al consumatore lo si può fare anche tramite un’etichetta.
L’anno scorso, in Veneto, sono partiti dei progetti pilota del cosiddetto tag parlante: avvicinando il cellulare al prodotto, è possibile visualizzare una serie di informazioni su di esso. Dal luogo di produzione, alle materie prime utilizzate, ai trattamenti subiti, al confezionamento. Se volete fare una prova, cercate i capi a marchio Lorena Antoniazzi.
Un ulteriore strumento si basa sul principio che l’unione fa la forza, giocando a proprio favore la carta della globalizzazione. Riunire sotto un’unica insegna piccole realtà locali permette di far conoscere il prodotto italiano dove nessuno aveva mai immaginato. E che vede nel concept di Eataly la sua espressione più riuscita. Il metodo Farinetti è stato oggetto di molte critiche, ma bisogna dargli atto dell’intuizione geniale. Sulla stessa scia, anche nel mondo digitale, nascono modelli simili: Artemest è un sito e-commerce che, in poco più di tre anni, è diventato un punto di riferimento nel mercato dell’artigianato di lusso 100% made in italy.
Cultura, tecnica, savoir- faire, tradizione e bellezza: un concentrato impagabile di noi italiani.
Se si pensa poi che nasce nell’0,8% della popolazione mondiale diventa imperativo e lungimirante riuscire a salvaguardarlo ad ogni costo.