a cura di Davide Pellegrini
Daniele De Michele è un precursore. Quando ancora non se ne parlava ha avuto l’intuizione e il merito di aprire il settore del food performing, ha cominciato a divulgare il verbo della sana alimentazione e dell’importanza delle tradizioni culinaria, alternando come artista, gastronomo e divulgatore. Per tutti è DonPasta.
Partiamo dall’inizio. In tempi non sospetti, quando la televisione non era ancora terra di conquista di food show di tutti i tipi, DonPasta comincia a lavorare sul tema della divulgazione della cultura #alimentare con progetti di scrittura, spettacoli, performance. Food Sound System risale al 2001 e cinque anni dopo diventa un libro. Ci racconti quale è la filosofia di DonPasta e come hai ideato il format del cooking dj set?
In effetti a quei tempi c’erano pochi spazi per parlare di cibo. Slow Food e Gambero Rosso iniziavano la loro ricerca sulle eccellenze. Io per predisposizione personale già da allora mi contentavo di raccontare le piccole emozioni delle feste tra amici con i Sud Sound System tra reggae e friselle. Mi piaceva raccontare della cucina popolare, della cultura millenaria che c’era dietro. Avevo come ispirazione i racconti a Barcellona di Montalbano, di Izzo a Marsiglia e di Erri De Luca a Napoli. L’idea buffa di unire i miei vinili e la cucina delle nonne è uscita in modo molto spontaneo, ma mi accorsi che aveva un suo senso simbolico e estetico. Da li nacque Donpasta, da una festa tra amici tra parmigiane, reggae, terre incontaminate e pesce appena preso da una piccola barchetta. Il mio sud insomma.
Sei un economista con un Master in scienze gastronomiche e una vocazione antropologica. Conosci il valore economico del cibo ma, soprattutto, hai fatto ricerche importanti sulle culture tradizionali e sulle tipicità locali. Dalle Nonne d’Italia al ricettario di cucina Artusi Remix del 2014 hai collezionato storie e piatti. Cosa lega questa memoria popolare alle nuove urgenze di innovazione, sostenibilità ed economia circolare?
Sono di quelli che pensano che il modello capitalistico così come è non è sano in generale per la distribuzione delle ricchezze e per gli effetti sul pianeta terra. Uso il mondo del cibo per dare una prova approfondita degli effetti nefasti dell’industria agroalimentare su un popolo, sulla terra, sui mestieri, sulla salute, sulle economie locali. Mi sono concentrato dunque sull’investigazione della cucina popolari prima con la scrittura di Artusi Remix in cui ho raccolto 500 ricette tradizionali da nord a sud, poi ho filmato tante nonnine che cucinavano per me, per finire con il film I Villani. Il senso di questa operazione è che la cucina popolare si svela come modello di economia più sano al modello capitalistico di cucina se si osserva il rapporto con la salute (dieta mediterranea), con il commercio (una filiera corta ante-litteram), l’ambiente (il rispetto delle stagioni).
Una domanda provocatoria. Come giudichi il proliferare di trasmissioni televisive e show dedicati al food? Non c’è, secondo te, il pericolo che l’eccessiva spettacolarizzazione possa contribuire a inflazionare il settore abbassando gli standard qualitativi effettivi della cultura alimentare?
La cosa è controversa. Prima che arrivasse Slow Food i grandi supermercati stavano per diventare imperanti. Prima che i grandi cuochi arrivassero nei media la moda era il sushi. appassionarsi alla cucina non è così male. Ciò che contesto è che non può reggere l’impatto della globalizzazione una cucina mediatica, avanguardista, uguale ovunque nel mondo. Credere di dimenticare l’origine della cucina italiana, che abbiamo ereditato da millenni di scambi culturali è pressoché folle, oltre che assai deleterio. La cucina così come si è costruita è un fatto sociale e culturale, non un fatto tecnico e edonista.
Hai partecipato a numerose trasmissioni tv pur mantenendo autonomia creativa in progetti di performance, scrittura (con numerosa pubblicazione di libri) e altre forme artistiche. Mi ha incuriosito molto la gestazione de I Villani. Ce ne parli?
I Villani sono stati la mia dolce tortura. Da un punto di vista personale posso attestare che la moda della cucina mediatica si è poco interessata a questa ricerca. Avrei tanti di quegli aneddoti da raccontare sugli hipster della tv che provavano a prendere la mia idea e edulcorarla per renderla digeribile a un pubblico televisivo. Provarono a fare una forma di sussunzione dei contenuti in un certo senso e se si vede come sta cambiando il modo di comunicare il cibo adesso quelle mie intuizioni compaiono sempre di più nella narrazione attuale. Dal canto mio non potevo mediare il lavoro, perché era per sua natura scritto nel solco delle ricerche di De Martino e Gramsci da un punto di vista teorico e nelle ricerche dei maestri della cultura come De Seta, Olmi e tutti gli altri. Non c’era possibilità di alleggerire, imbellire, patinare. Il cinema documentario restava l’ultima soluzione ma in un certo senso la migliore, perché permette di sintetizzare formalmente tutta una ricerca in una ora e quarto. La gestazione è stata lunghissima ma piena di emozioni grazie al contributo di maestri del cinema italiano come Andrea Segre, Giogiò Franchini e grazie al prezioso supporto di Rai Cinema.
Sei attivo anche sul fronte della formazione e, a quanto leggo, come ambassador di messaggi di innovazione sociale. Cosa è esattamente United Food of Milano?
Osservando i modelli evolutivi della cucina dell’occidente se si paragona ai processi storici passati si desume facilmente che la cucina popolare è intrinsecamente dinamica e meticcia. Si evolve per scambi e assimilazione di innovazioni altrui. Gran parte delle ricette italiane sono frutto evidente di scambi tra popoli (cous cous di pesce, sarde in saor, carciofi alla giudia, risotto alla milanese, etc). Questo perché se uno studia la cucina popolare italiana e la raffronta con le altre cucine popolari si accorge che i codici che sottengono i comportamenti attorno al cibo sono identici ovunque, dal Salento al Trentino, dal Vietnam all’Algeria, dalla Francia alla Giamaica. Le grandi metropoli occidentali raccontano questa strana contraddizione tra civilizzazione occidentale e culture ancestrali. Rifiutare questa evidenza è antistorico oltre che frutto di una degenerazione della tenuta di una democrazia. Il mio attivismo sull’antirazzismo va di pari passo a quella per la salvaguardia delle tradizioni, contro la vulgata generale che vede la tradizione in pericolo se messa in contatto con altre culture. La differenza è che io ho studiato per un decennio prima di formalizzare un pensiero di questo genere, loro no.
Grazie e… hai in mente qualcosa su Torino? Nel caso, noi ci siamo!
Grazie per il supporto. Purtroppo ho presentato il film da poco, non so come e quando ci saranno occasioni. Ora ricomincio con il tour internazionale e con quello dei miei spettacoli. Vi aggiorno.