a cura di Andrea Pugliese
Al Salone di Torino 2018 gli editori avevano atteggiamenti differenti verso il mercato, tutti alla ricerca della chiave per affrontare il momento difficile.
Era presente un ampio assortimento di piccoli appassionati sognatori; c’era qualcuno che pubblica facendo pagare gli autori senza dirlo in giro; poi diversi editori medi coi creditori sul collo e la speranza di nuovi business model; infine quelli più grossi, per ora troppo grossi per fallire e con business sempre più diversificati ben oltre la lettura.
Le pile di volumi e i sorrisi degli addetti ai lavori erano arricchiti da decine di eventi, sessioni firma copie, presentazioni, tutti molto frequentati e graditi dal pubblico. Momenti utili a vendere, non adatti a tutti gli autori, necessari per dare un po’ di visibilità, creare comunità e brand awareness.
Dopo alcune fughe in avanti degli anni scorsi in cui aveva molto flirtato col mondo delle start up, dell’editoria elettronica, il Salone 2018 aveva un taglio piuttosto tradizionale in cui si sono delineate chiaramente le case editrici con profili distintivi: solo racconti, solo Oriente, solo ricette, solo gothic o fantasy, solo autori ungheresi, scandinavi o sudamericani.
L’idea insomma di coltivare una comunità di lettori che vada oltre al titolo o al prezzo di copertina ma che si ritrovi in una ricerca di senso che parta da interessi o passioni condivise.
Controprova di ciò erano gli stand deludenti e inutili delle Regioni in cui l’editoria sarda, marchigiana o valdostana presentava la propria faccia multiforme e confusa senza nessuna comune identità o missione.
È difficile mettere a fuoco i concorrenti del libro. Anche perché qualunque riflessione non può tralasciare i fatto che, secondo statistiche 2017, il 58% degli italiani non legge mai.
Di certo Amazon&Co. sono grandi competitor delle librerie in quanto market place. Hanno molti libri in catalogo, e li tengono per arrivare a vendere videogiochi, telefonini, calzini coi puffi, contenuti video e sigarette elettroniche. Capita di frequente vedere persone nelle librerie puntare un’app sul codice ISBN di un libro per comprarlo così on line e riceverlo a casa, con lo sconto e lo scorno del libraio.
I competitor diretti dei libri in quanto tali (e del teatro e del cinema e del …) sono sempre di più le serie tv: magnifiche, ben scritte, creano dipendenza, immergono in mondi, risucchiano il tempo delle serate. Se ne può parlare nei salotti né più e né meno dei libri, sentendosi colti e con maggiori possibilità che chi annuisce l’abbia davvero seguite.
Questa sparizione del libro dai salotti e dalle discussioni negli scompartimenti ferroviari è speculare alla sua ormai supposta irrilevanza culturale.
Per operare in controtendenza pare che – oltre alla qualità delle opere – occorra investire sull’identità dei marchi e sulla community raccolta intorno a essi, pilastri intorno ai quali edificare la fiducia che sosterrà la sopravvivenza del libro.
L’acquisto del libro è così sempre più parte di un’esperienza che inizia da una fase di avvicinamento al prodotto sviluppata sempre più on line, e di postvendita, di cui fa parte la lettura stessa, la recensione, la discussione, l’incontro con l’autore. Gli effetti speciali dei booktrailer o degli show stentano a dare risultati forse perché il libro è di per sé un’applicazione di Realtà Virtuale. Bibbia, Corano, Odissea così come Harry Potter ci parlano di mondi irreali e credibili solo con atto di fede. La saggistica rientra invece facilmente nella fattispecie della Realtà Aumentata con il suo aggiungere senso a quello che si vede o si vive.
Niente è davvero nuovo sotto il sole, se si presta attenzione e tempo a quello che accade.