a cura di Davide Pellegrini
Cosa significa fare team in una start up e su quali asset è importante lavorare? Cretail lo ha chiesto a Manuela Lombardi Borgia, Innovation Consultant e Mentor Expert per Eptagonlab.
Con Eptagonlab lavori da tempo come mentor per start up e nuove imprese. In un tuo intervento hai messo in evidenza come uno dei motivi ricorrenti nel fallimento di start up innovative è la creazione di un team inadeguato. Ci spieghi meglio?
Essere una start up di successo è cosa rara. Numerose ricerche negli ultimi anni continuano a evidenziare che oltre il 90% delle startup fallisce alla fine del secondo anno (la famosa death valley) e tra le ragioni principali c’è un team “sbagliato”. A mia esperienza le ragioni principali sono tre: in primo luogo, il mindset. Essere una startup significa agire come imprenditore e non tutti hanno questo talento nelle proprie corde. Occorre passione ma poi sacrificio e duro lavoro, resilienza, perseveranza e un po’ di sana follia. Ma soprattutto uno start-upper sa che il fallimento è parte del suo percorso e che il game non è evitare di fallire bensì farlo in maniera sostenibile. Significa avere un sogno, una visione forte e dei valori condivisi a cui ancorarsi nei momenti difficili che verranno sicuramente perché fare l’imprenditore è davvero un mestiere durissimo.
Poi ci sono le competenze. Partiamo da un assunto fondamentale: fatto 100 il successo di un progetto di business, l’idea vale al massimo il 5%. Poco, pochissimo. Il resto è execution, cioè la capacità di partire da un atto creativo e di mettere in fila tutto ciò che occorre per trasformarlo in un prodotto e comunicarlo in maniera chiara ed efficace al mercato e ai potenziali investitori.
E qui entra in gioco un altro tema ricorrente: spesso i team si formano tra compagni di corso che hanno background e competenze simili. Invece un team equilibrato ha bisogno di competenze diverse, di confronto, di pensiero divergente. E soprattutto una start-up che punti al successo deve avere in casa le competenze chiave dell’impresa. In questa fase il capitale più importante è proprio il lavoro che i co-founder mettono for free al servizio della propria idea. Comprarle fuori costa e all’inizio i soldi sono pochi. C’è poi anche un tema di fidelizzazione che in ambiti molto tecnici ad esempio è un fattore critico di successo. Ma occorre sapere quali siano esattamente e questo dipende dalle attività fondamentali del progetto. Se il proprio modello di business è centrato sulle relazioni con i clienti, occorrono competenze diverse rispetto a un modello centrato sulle infrastrutture o sulla innovazione di prodotto. Ciascun tipo di attività ha esigenze culturali, competitive ed economiche specifiche. Ecco perché avere una visione chiara e una strategia coerente è sempre il buon punto di partenza.
Quando penso al settore start up mi viene in mente che il valore aggiunto possa essere proprio il team o, meglio, i valori e le motivazioni che il team condivide. Su quali asset costruite il percorso di mentorship e con quali obiettivi?
La mentorship ha come obiettivo primario il trasferire spunti di riflessione e il favorire l’acquisizione di una piena consapevolezza del proprio ruolo e delle sfide che comporta il fare impresa. Il mentor è una guida, un abilitatore di talenti, un generatore di dubbi. È la differenza che esiste tra il costruire e il coltivare: costruire qualcosa implica un inizio e una fine, coltivare invece significa creare i presupposti per una crescita sostenibile che duri nel tempo.
Stefano Mainetti, CEO di Polihub, l’Innovation District & Start Up Accelerator di Milano con cui collaboriamo, sostiene che essere mentor è innanzitutto una sfida culturale. Non è banale, non ci si improvvisa. E per esperienza, avendone affiancati molti come tutor, non è un mestiere per tutti. È sapersi mettere al servizio di un’idea con cura, attenzione e profondo rispetto, sempre. Di qualsiasi idea si tratti, anche quella apparentemente più bizzarra. Questo è quello che facciamo in Eptagonlab: trasferire esperienza senza trovare soluzioni, lasciando che ognuno trovi le proprie. Dotare i futuri imprenditori di una cassetta di attrezzi efficaci a minimizzare il rischio di disperdere risorse, tra cui quella più importante e preziosa: il tempo.
Secondo te, rispetto anche a un approccio al project management collaborativo e partecipato, nel caso delle neo-imprese è possibile parlare di un continuo assestamento reostato proprio alla progressiva costruzione delle competenze e dei ruoli di un team?
Sicuramente. Ciò che distingue un’impresa avviata e una start-up è proprio il cuore del sistema. Per le prime è la gestione, per la start-up è la sperimentazione. Il processo di validazione delle ipotesi porta a continue reiterazioni del processo di costruzione del valore e questo obbliga a ripensare il modello organizzativo anche in termini di ruoli e di competenze. Nel caso di progetti basati su un modello collaborativo e partecipato è un continuum. Chi si ferma abdica alla propria natura ed è perduto.
Quali sono i modelli tecnici a cui vi ispirate?
Il metodo che applichiamo, ad esempio nel Percorso Executive per diventare Mentor del Polihub, è quello della Lean Startup. Un metodo che sul campo si è dimostrato davvero efficace nel fare emergere in breve tempo le criticità del modello di business e nel validare le ipotesi di lavoro con il minimo impiego di risorse. Il mantra è build, measure and learn.
Al centro di tutto c’è l’uomo: il compito che desidera assolvere, il bisogno che vuole soddisfare, i problemi che incontra nel farlo, i vantaggi che desidera ottenere. Su queste ipotesi si costruisce la proposta di valore e si predispone un prototipo di soluzione. La si testa, si raccolgono i feedback, si aggiusta il modello di business e si ricomincia fino a trovare il fit perfetto. E il gioco è fatto. Non serve la bacchetta magica ma solo un metodo e degli strumenti che consentano di essere efficaci e consapevoli nella propria azione sul mercato.
Quali sono le conoscenze o le competenze che, secondo te, dovrebbero maturare i giovani che intraprendono un’attività imprenditoriale?
Continuo a pensare che il vero fattore critico di successo sia proprio il mindset e il prendere esempio dai grandi, lasciandosi ispirare da chi ce l’ha fatta anche iniziando da umili origini. Imprenditori come Steve Jobs, Howard Schultz (Ceo di Starbucks), Larry Page e Sergey Brin, studenti dell’Università di Stanford che hanno fondato Google o ancora Jeff Bezos, Ceo di Amazon. Seguire e studiare chi ce l’ha fatta con la volontà di fare qualcosa di ancora più grande. Essere umili, sviluppare capacità di ascolto, lasciarsi contaminare dalla diversità e frequentare chi è migliore di noi. Jim Rohn sosteneva che ognuno di noi è la media delle cinque persone con cui trascorre la maggior parte del proprio tempo. Questo perché l’essere umano è fatto di energie che scambia continuamente con il mondo esterno. Quando si entra in relazione con qualcun altro, ci si cambia reciprocamente. È l’ambiente a determinare l’innovazione e il cambiamento.
La competizione non serve a nulla, in un ecosistema allargato dove la velocità è il fattore chiave occorre puntare sulla collaborazione e sulla condivisione. Il punto non è essere migliori di qualcun altro ma mirare all’eccellenza nel fare quello in cui si crede fermamente, facendo leva sui propri talenti e sulle proprie competenze.
Studiare tanto e all’occorrenza saper chiedere aiuto, a dei mentor ad esempio. In fondo siamo qui tutti per cambiare il mondo e per renderlo un luogo migliore in cui abitare. Una sfida difficile, paurosissima ma soprattutto entusiasmante. Una magia che, una volta conosciuta, è capace di legarci a sé per sempre, rendendoci tutti un po’ più felici.