Parlare di #economia circolare significa esprimere il desiderio di cambiare. Parlare di economia circolare e retail definisce il modo in cui vogliamo cambiare.
Quando abbiamo fondato Italia Circolare abbiamo dichiarato che volevamo occuparci dell’unico futuro possibile, raccontarlo, valorizzarlo, capirlo. Piuttosto ambizioso e visionario come progetto. Invece se ci pensiamo bene parliamo di cose molto concrete e a portata di mano. Parliamo di allungamento dell’utilizzo delle risorse, ottimizzando il loro uso e allungando la vita dei prodotti, il riutilizzo, la riparazione e la rigenerazione. Parliamo di utilizzo di materie prime rigenerative che devono mantenere intatto il capitale naturale e l’ecosistema in cui viviamo, Parliamo della produzione di materie prime seconde generate dagli scarti di lavorazione e del loro riutilizzo. Parliamo di economia della condivisione.
Economia circolare e retail
Per il retail tutto significa riduzione degli imballaggi, efficientamento energetico dei punti vendita, una migliore gestione dei rifiuti, l’ottimizzazione della logistica, delivery, lotta contro ogni forma di spreco a partire da quello alimentare, l’educazione dei consumatori a riconoscere la sostenibilità dei prodotti e il diritto al riuso e la riparazione. Senza dimenticare le persone, la loro salute e la sicurezza sul luogo di lavoro e i loro bisogni, insieme a quelli delle comunità e dei territori dove le insegne sono presenti
Prendiamo solo uno di questi punti, lo spreco di cibo. Le stime dicono che circa un quarto (24%) delle emissioni del settore alimentare sia riconducibile a cibo perso e sprecato che è circa il 38%. Stiamo parlando del 10% delle emissioni complessive globali di gas serra. Stiamo parlando della salvezza del pianeta.
Walter Stahel è un architetto svizzero. È lui l’inventore del termine Circular Economy. Una volta scrisse:
La circolarità, il principio che governa la natura, è alla base anche della società circolare. Quest’ultima ha consentito all’umanità primitiva di superare la scarsità di risorse, persone e competenze facendo l’uso migliore possibile delle risorse naturali disponibili; la condivisione e il riuso erano una necessità e la norma. Quando un castello o una cattedrale diventavano superflui, per esempio a causa dei cambiamenti politici, la loro struttura veniva smantellata e le pietre venivano usate per costruire nuove case o ponti. Per lungo tempo, questa società circolare è stata la migliore amica dell’uomo, onnipresente e discreta, guidata da scarsità e povertà.
Scarsità e povertà, sono l’unica forma di consapevolezza per alimentare oggi la crescita e la ricchezza. Il retail in questo è fondamentale perché rappresenta la cerniera ideale che unisce produzione e consumo in una nuova forma produttiva, mi piace definirla alleanza, che parte dalla materia e rigenera materia.
In fondo l’economia circolare è questo.
La buona notizia è che lo sappiamo fare, la cattiva notizia è che non lo stiamo ancora facendo.
Prima del Covid -19, orfani talvolta felici ma sicuramente impoveriti dagli eccessi lineari della globalizzazione, avevamo scoperto e teorizzato come l’impresa potesse e dovesse esercitare un ruolo attivo, decisivo e determinante all’interno della coesione territoriale dove opera e a favore della sua comunità.
La responsabilità sociale e il bilancio di sostenibilità erano diventati fattori competitivi decisivi per definire e valorizzare l’impresa e il suo ruolo nel mondo.
Era tornata di moda una parola antica e dimenticata come “Comunità”, definita all’interno della coesione territoriale insieme all’innovazione, la sostenibilità, il welfare, la digitalizzazione, la qualità. Anche dal punto di vista semantico e sicuramente non per caso, la responsabilità sociale d’impresa aveva iniziato a definire “Comunità” l’insieme degli stakeholder attivi e passivi, interni ed esterni alla sua filiera sociale e produttiva.
Oggi sappiamo fuori dalla teoria sociale e dalla sua definizione storica che l’impresa deve prima di tutto essere il luogo del futuro, della visione, del progetto. Un vero cambio di passo. E noi italiani sappiamo bene come si fa. Lontano dal forzato ed effimero presentismo degli ultimi anni, il made in Italy ha insegnato al mondo come si può disegnare una filiera produttiva di qualità partendo dal nulla, ma soprattutto ha raccontato che l’innovazione e la creatività dei suoi prodotti dipendono dalla tradizione, il saper fare, il paesaggio, la creatività, il modo di vivere e convivere delle persone che abitano il luogo dove l’impresa è nata e si è sviluppata.
Dal made in Italy al re-made in Italy il passaggio è breve ma decisivo.
Non per caso siamo campioni d’Europa in economia circolare. Recuperiamo e differenziamo rifiuti più di ogni altro paese e produciamo di più consumando meno risorse ed energia di ogni altro paese. Lo sappiamo fare perché siamo poveri di materie prime e di energia. Produciamo ricchezza dalla povertà. Eccola avverata la profezia di Walter Stahel.
“Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. La celebre frase dello storico dell’economia Carlo Maria Cipolla racconta i fattori di successo della manifattura italiana: la bellezza e la qualità dei suoi prodotti insieme al modo di essere dei territori, i distretti e le loro comunità.
La definizione stessa di Economia Circolare è sinonimo di rinascita e rinascimento, di riuso e ripensamento, di riciclo e rispetto e soprattutto di non accettazione della “cultura dello scarto” quando ad essere considerate “scarti” sono persino le persone, ci ha ricordato Papa Francesco . Il suffisso “ri” corrisponde alla seconda possibilità sapendo che non ce ne sarà una terza. L’umanità attraverso l’esasperazione del concetto di finanza e di mercato ha sottratto risorse al pianeta, lo ha impoverito, distrutto, umiliato. L’unico modo che abbiamo di costruire il futuro di cui oggi più che mai abbiamo bisogno consiste nel difendere il saper fare della nostra produzione che riscopre il valore tangibile e intangibile della materia e del suo recupero. L’Economia Circolare è la base per una definizione di sviluppo finalmente “a misura d’uomo” e non di un’economia che “misura l’uomo” solo ed esclusivamente attraverso la sua capacità o meno di consumare.
Tornano a bussare con forza alle nostre coscienze economiche e civili le parole di Adriano Olivetti: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica. Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura”.
Nel retail la fabbrica si chiama punto di vendita.
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